ACHTUNG! BANDITEN. CROWFUNDING

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riarrangiare i canti partigiani, anche quelli meno conosciuti, facendo scontrare una formazione rock (basso, batteria, chitarra, tastiere), con riff e citazioni di classici del rock pop con un coro che esegue tradizionalmente le parti cantate.

Un CD / libro con 14 tracce, note degli autori del CD e con contributi di note storiche e musicologiche di Carlo Pestelli, Giuliano Contardo ed altri.

Noi e l’architettura del ventennio – I introduzione al tema

Amate l’architettura nella bella veste rinnovata del sito, sta pubblicando una mia riflessione sul tema nel titolo, diviso in tre parti (si sa, gli scritti in rete devono essere brevi e allora li spezziamo)

Argomento spinoso ma deve essere affrontato.

riporto direttamente qui il testo

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Nel corso degli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso sembrava ormai avviata la definitiva storicizzazione di quella parte di storia italiana sotto il regime fascista, il “ventennio” che si suole periodizzare dal 1922 al 1943.

La storicizzazione è un processo di “metabolizzazione” di eventi passati in modo completo, ossia finiti da un tempo sufficiente da consentire una loro valutazione spassionata, fredda, non alterata da motivazioni politiche attive.

In questo caso, l’intensità del fenomeno e la sua violenta conclusione (la guerra in alleanza con la Germania nazista, la Resistenza, gli strascichi violenti protrattisi ancora fino agli anni ‘70), ma anche la particolare caratteristica del fascismo, che fu matrice di tante dittature anche del secondo dopoguerra in quanto primo modello di “nazionalsocialismo”, ha reso il processo di storicizzazione lungo e difficile.

Tuttavia, almeno sul piano accademico, questo processo sembrava ormai arrivato a maturazione,a mezzo secolo dalla fine del fascismo.

Parlando di architettura, del 1993 la mostra “Architettura italiana d’oltremare (1870-1940)”1 segna a mio parere il punto in cui questa storicizzazione divenne assodata anche fuori dal campo accademico, in cui la storicizzazione era già avvenuta (il saggio di Giorgio Ciucci per Einaudi2 ma ancora prima, quasi troppo presto, il volume di ampia periodizzazione di Accasto Fraticelli e Nicolini3 e il celebre saggio di Cesare De Seta4.

Questo processo di storicizzazione sembra però oggi regredito. Chiunque oggi si sia trovato a parlare di architettura degli anni ‘30 sa che non può fare apprezzamenti di sorta, o anche solo prendere in esame la cosa, pena l’essere stigmatizzato come simpatizzante del fascismo. Il clima non è più sereno. Che cosa è successo?

Credo che si assista in questo periodo alla evoluzione di alcuni fenomeni concomitanti.

Il primo è ideologico/filosofico, dovuto alla influenza del mondo anglosassone, ed è dato dalla assolutizzazione e resa metafisica degli eventi della seconda guerra mondiale. Ad esempio, il nazismo visto come “il male assoluto” e non come elemento storico determinato, la teorizzazione del “fascismo eterno” °(ur-fascismo) di Umberto Eco, spesso glorificata acriticamente anche se si trattava, in fin dei conti, di nient’altro che una estemporanea brillante conferenza di Eco negli Stati Uniti.5 Oppure le polemiche giornalistiche sciocche e di basso livello riguardo al fatto se il regime avesse o non avesse fatto anche cose buone, (al che si è, sotto ricatto morale, costretti a dire l’impossibile, cioè che in 20 anni di governo qualcuno abbia potuto fare solo cose cattive).

Questa mitizzazione genera oltretutto fenomeni revanchisti di segno contrario, anche a livello istituzionale, che rinnova odi e passioni laddove sarebbe opportuno costruire una coscienza storica accurata e diffusa.6

Il secondo fenomeno è in parte collegato. La crescita di movimenti di contestazione dell’establishment “democratico” (ossia del capitalismo contemporaneo, internazionalista e progressista), inscrivibili in un’area ideologica di populismo anche talvolta nazionalista, favoriti dalla sparizione di fatto di una sinistra popolare, sono stati spesso stigmatizzati, spesso in modo sleale e scorretto, come “fascisti”, e dunque classificabili come “male assoluto”.

Tutto questo ha di fatto congelato il processo di storicizzazione del fascismo, oltre ad ingessare e incancrenire i processi politici attuali. Va detto chiaramente che il processo di storicizzazione, invece, sancirebbe la definitiva e ufficiale morte del fascismo.

Comincerei a sgombrare il campo dalle idiozie del tipo “ha fatto o non ha fatto cose buone”.

Al di là del fatto che “buono” è un giudizio morale che, su un piano storico scientifico, non ha alcuna rilevanza, quando si parla di “cose fatte” (ad esempio l’architettura) si parla innanzitutto di qualcosa che non riguarda il ristretto raggio degli eventi politici, ma fenomeni di più “lunga durata”.7

La società civile, la cultura di un paese come l’Italia di un secolo fa, non nasceva dal nulla, ma da secoli di storia, di saperi e mestieri tramandati che si ponevano in continuità, a prescindere dai regimi politici vigenti nei vari momenti storici. Un edificio degli anni ‘30 era progettato da architetti e ingegneri formatisi prima del fascismo, realizzato da artigiani e artisti formatisi prima del fascismo, con imprese strutturate prima del fascismo. Il piano storico di esame non è della storia degli eventi politici, ma quello della storia della società e della cultura, che è di più lunga durata e solo in piccola parte condizionato dagli eventi politici.

Questo, ad esempio, è quanto osservò Pasolini nel suo famoso documentario “la forma della città” , apprezzando l’impostazione architettonica ed urbanistica di Sabaudia. (citazione di ppp).8

Era un mondo con mass media di potenza assai bassa in rapporto alla attuale. L’architettura era ancora uno dei veicoli essenziali di propaganda di un Regime. Ma questo è un fattore che va visto con una certa freddezza, come un mero dato della questione. Inutile e dunque dannoso, sul piano storico, dare giudizi morali.

L’Italia era un paese, nei primi anni del ‘900 in naturale forte crescita e industrializzazione, ancora privo di molta strutturazione primaria e secondaria. La sua crescita sul quel piano sarebbe comunque avvenuta, come del resto avvenne in tutti i paesi simili a prescindere dai singoli regimi. 9

Nelle prossime puntate vorrei fare alcuni brevi accenni nel vivo degli aspetti architettonici, cercando di individuare alcuni punti che meriterebbero una maggiore analisi storica finora inibita o rallentata dalla presenza ancora vitale di fattori di valutazione politico/morali.

(continua)

1Il ricco catalogo: Gresleri G. Massaretti PG., Zagnoni S (a cura di) Architettura Italiana d’oltrremare 1870-1940. Venezia, Marsilio 1993

2Ciucci Giorgio, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944. Torino Einaudi 1989. Ma l’impianto dello scritto era un saggio parte della Storia dell’arte italiana Einaudi in volume pubblicato ne 1982

3G.Accasto, V. Fraticelli, R. Nicolini, L’architettura di Roma Capitale 1870–1970. Roma Golem 1971

4C.De Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Bari Laterza 1972.

5Lo scritto “Il fascismo eterno” era contenuto inizialmente nella raccolta “Cinque scritti morali” edito da Bompiani nel 1997, da un discorso pronunciato in un simposio della Columbia University del 1995 per il cinquantennale della liberazione dell’Europa dal nazifascismo. Nella prefazione della raccolta è lo stesso Eco a puntualizzare che lo scritto era occasionale e rivolto agli studenti americani, a poca distanza dall’attentato dell’Oklahoma: “Quindi il tema dell’antifascismo assumeva particolari connotazioni in quella circostanza, e la riflessione storica voleva incoraggiare una riflessione su problemi d’attualità in diversi paesi …

6Per una disamina, ad esempio delle questioni attorno al “Giorno del ricordo”, vedasi lo speciale dedicato alla questione da L’Internazionale, qui: https://www.internazionale.it/notizie/nicoletta-bourbaki/2017/02/10/foibe

7Il concetto di “lunga durata”, come è noto, è stato elaborato da Fernand Braudel.

8il fascismo, il regime fascista non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere» che «non ha potuto fare niente, non è riuscito ad incidere, nemmeno a scalfire lontanamente la realtà dell’Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico-estetizzante-accademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata ma […] in quella realtà che il fascismo ha dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire, cioè è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleoindustriale, che ha prodotto Sabaudia e non il fascismo”. Documentario Rai del 1974, visibile interamente qui http://www.teche.rai.it/2015/01/pasolini-e-la-forma-della-citta-1974/

9Si può senz’altro ritenere che una certa “nazionalizzazione” potesse favorire il potenziamento interno del paese. Ma questo non fu peculiare del fascismo ma comune anche non solo in paesi socialisti come Unione Sovietica o Cina (altrimenti preda della colonizzazione inglese), ma anche negli stessi paesi liberali, fortemente nazionalisti (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti). I processi di internazionalizzazione del capitale erano già presenti ma non ancora maturi. Tema che sarebbe da approfondire ma che esula dal nostro campo specifico di indagine.

Appunti per la città post pandemica I

La pandemia Covid 19 ha forse consegnato definitivamente al secolo scorso alcuni aspetti distintivi delle concezioni urbane e architettoniche moderne.

Si prenda in considerazione l’elemento principalmente critico: l’alta concentrazione e densità urbana.

La città è, per sua natura, sempre stato un fenomeno di concentrazione e polarizzazione territoriale. Le metropoli moderne hanno accentuato questo aspetto di polarizzazione, reso emblematico dalle costruzioni in altezza. “La città che sale” è emblema futurista, e nel corso del primo decennio 2000 indubbiamente il grattacielo ebbe un nuovo successo, principalmente dalle metropoli asiatiche in crescita, con record di altezza statunitensi polverizzati dai “supertall”, nuove forme per gruppi di torri che gareggiano nei cieli e nei computer di tutto il mondo collegato in rete. Edifici climatizzati ed ermetici.

Tutto questo è l’antitesi di un insediamento propizio al contrasto ai contagi virali, dati gli assembramenti sui luoghi chiusi, e la necessità di uso dei trasporti pubblici con picchi di affollamento corrispondenti agli orari di lavoro o di studio. Certamente i grattacieli consentono un miglior sistema di controllo di accesso, di monitoraggio, ma in ogni caso costituiscono una pericolosa concentrazione, per loro stessa natura.

Concentrazione urbana significa anche alta intensità di uso dello spazio domestico, maggiori prezzi in funzione delle minor distanze dal cuore dei poli metropolitani. Quindi spazi tendenti allo “existenz minimum”. Minime, ma per principio di economia e produzione seriale, cellule in abitazioni collettive di ampie dimensioni, con servizi comuni. Anch’essi oggetto di recente revival in forme di “co housing”, ed altro genere di residenza collettiva.

Tutto questo è invecchiato tremendamente nel giro di pochi mesi.

Personalmente non ho mai creduto alla possibilità che la pandemia possa avere una lunga durata, a differenza di molti colleghi che hanno immaginato cambiamenti radicali a lungo termine dei modi di abitare a causa della permanenza del virus, immaginando il ripristino dei borghi fuori città, con ampi spazi disponibili anche all’aperto ma con connessioni wireless.

Questi scenari immaginati a partire permanenza del virus sono persino per certi versi auspicabili, e anche all’interno della modernità, che – non va mai dimenticato – ha sempre avuto una doppia natura, una sorta di antitesi interna. Basti pensare alle concezioni disurbaniste di Wright, o a quella che oggi potrebbe parere una profezia da parte di Lewis Mumford, che le megalopoli si sarebbero trasformate in necropoli.

Indubbiamente questa pandemia, con la scossa che ci ha dato può, pur cessando, avere un effetto positivo nel ripensare per il futuro gli spazi urbani. La città, la densità, questa polarizzazione urbana ci saranno sempre finché l’uomo popolerà la terra, perché è nella sua natura, perché l’uomo è davvero un animale sociale e la socialità non può esprimersi unicamente attraverso mezzi di comunicazione, “media”.

Ma ripensare, ridisegnare la città che si è costituta nel secolo scorso, con certi criteri di cui oggi vediamo meglio i limiti e i difetti, è forse più facile dopo la pandemia. E necessario, indipendentemente dalla sua durata.

(continua)

Il ballo dei giovani boomers 4 – lae fahomme machine

Caro lettore, è il momento di confidarmi con te. Sono arrivato al momento che sempre mi capita, quando penso ad un argomento: parto da una ipotesi precisa, drastica, perentoria; mi serve come chiave per entrare nelle varie stanze dell’argomento; e più giro per le stanze, e più mi accorgo che questa tesi non è sbagliata, ma solo una parte di qualcosa di più ampio; che ci sono più aspetti della questione; e che dunque questa ipotesi si verifica, ma con meno drasticità, più sfumature e contraddizioni. Perché così è il reale. Che è sempre più grande del tuo/mio cranio

Ero partito da questa ipotesi, copio incollo dalla prima puntata: “La tesi che qui provo a proporre è che, durante gli anni 80 del secolo scorso, si completa il percorso sociale e musicale attraverso cui il ballo di musica popolare diviene una manifestazione solipsistica e talvolta narcisistica, laddove in precedenza era una forma di approccio e incontro/corteggiamento fra persone attraverso il contatto.”

Ti ho mostrato la versione di Satisfaction del primo LP dei DEVO. 1979. Disco prodotto da Brian Eno, personaggio chiave in questo racconto. Non si era mai visto niente di simile. I DEVO sono un prodotto molto particolare DE-evolutissimo, surreale. Il video di Jocko Homo, brano che contiene le parole che danno il titolo all’album, resta tuttora sconvolgente, abnorme.

Eno e i DEVO si lasceranno. La storia continuerà a farla ENO, che continuerà la sua collaborazione con David Byrne e i Talking Heads, cominciata nel 78 e maturata in pieno con Remain in Light il cui hit era Once in a Lifetime. Entriamo negli anni ’80. Nelle discoteche rock si ballerà così. Il rock non è mai stato così ballabile. Ma si balla da soli, con le proprie nevrosi, i propri tic.

Il video, già: perché non parliamo più solo di musica, di giradischi, di discoteche, di elettronica sofisticata e indice di avanguardia. La televisione cambia. Diventa a colori, a più canali, anche privati. Il video elettronico prende il posto del cinema analogico, diventa quasi alla portata di tutti. Così gli strumenti elettronici: al posto di sintetizzatori grandi come armadi, monofonici, e degli strumenti che nei 60 e 70 hanno segnato l’epoca (piano elettrico, mellotron, organo hammond con leslie) si diffondono synt leggeri, economici, polifonici, che emulano sempre meglio con preset il suono degli strumenti musicali, vecchi synt compresi. Il suono digitale prende piede negli studi di registrazione, anche se attraverso fasi intermedie che attraversano gli anni 80; il suono della batteria elettronica diventa imperante, con il suo tempo predefinito, astratto, inalterabile.

In ogni caso il VIDEO diventa il principale canale di diffusione delle novità: spesso vere e proprie opere d’arte, piccoli capolavori, genere cinematografico. Il video soppianta la radio.

Video Killed the Radio Star è un altro brano che ha fatto epoca che ci consente di introdurrre un altro protagonista del nostro racconto: Trevor Horn. Dopo il successo avuto con the Buggles, Horn continua la sua carriera di producendo gruppi come i Pet Shop Boys e Frankie Goes to Hollywood, e direttamente, con il approccio sofisticato alla dance elettronica, nel suo gruppo ART OF NOISE.  Elettronica, musica ex machina, Homme Machine: Max Headroom

Gli Art of Noise sono un gruppo comunque un po’ di nicchia, che strizza l’occhio all’avanguardia. Ma nello stesso anno Trevorn Horn produce il settimo disco di Grace Jones, cantante attrice modella allora all’apice del successo. E’ un momento particolare, in cui la moda e il design si saldano con l’arte e con questo tipo di musica, ballabile, ed elettronica, popolare  e sofisticata.

Grace Jones è una perfetta rappresentazione: statuaria androgina. Donna androgina, macchina sensuale. Homme-femme machine, perfettamente nei termini di La Mettrie.

Si comincerà a parlare di “Post umano” o di “Trans umano” solo 10 anni più tardi. Ma indubbiamente in questo caso la musica – la musica “pop” che si balla anche nelle discoteche, che ascoltano, vedono e ballano gli allora giovani “boomers” anticipa nettamente questa tematica rispetto alle teorie. Il senso anticipa l’intelletto in proposito. Tout se tien.

 

Il ballo dei giovani boomers, parte 3 – Psyco can’t dance

È interessante notare che, fino alla fine anni 60, l’immaginario collettivo nei paesi occidentali era sempre ottimistico. Sia le utopie anarco pacifiste, sia le visioni del mondo più concretamente legate al progresso tecnologico ed alla crescita economica resa possibile dal capitalismo erano fondamentalmente ottimistiche, ed alleate fra loro nella distruzione dei residui delle culture tradizionali, di origine premoderna. Questo accadeva – direi coerentemente – anche quando gli occidentali andavano a impossessarsi e conoscere altre culture tradizioni, tipo quella indiana. Un interesse che ebbe certamente un ruolo nella cosidetta Psychedelic Era.

Penso che le idee psichedeliche ebbero un ruolo di snodo e trapasso importante in questa narrazione. Certo non è questa la sede per una trattazione dell’argomento, secondo me non sufficientemente trattato sul piano della storia sociale delle idee.

Il ballo della psichedelia non poteva che essere una trance, e in definitiva solo mentale. La psichedelia inaugura una fase di crisi del precedente assetto, ballo musicale compreso. Il ballo scompare sostanzialmente dal rock post psichedelico, se non come trance. Una trance non mistica. Non è un dio o un demone che si impossessa del corpo. Ma è lo strato profondo, intimo, in termini freudiani l'”ES”, che erompe, una volta narcotizzato non solo il Super-Io ma l’ Io stesso. Al massimo in un afflato panteistico di fusione cosmica. E tuttavia, com’è intuibile, se il ballo è pura espressione delle pulsioni profonde dell’individuo, non ha più mediazione, e dunque non è più, in fondo, ballo.

Un processo che continuò pure in quelle espressioni musicali che oggi vengono chiamate “progressive”,  quella espansione eclettica in mille direzioni di una certa psichedelia, (laddove il rock psichedelico più garage sopravviverà identico sottotraccia, underground, fino al suo recupero in veste punk).

Mi piace mettere qui la “scena degli Yardbirds” di Blow Up di Michelangelo Antonioni, del 1966, stesso anno di Uccellacci ed Uccellini. Pasolini ci rappresenta i ragazzi di borgata che si “acculturano” con i nuovi balli; Antonioni si mostra l’avanguardia, quel che verrà in seguito in provincia: a Londra non si balla più, non necessariamente; l’individuo è solo, disincantato. Si agita per feticci.

La musica dance nera americana invece prosegue col funk e si commercializza anche per i bianchi con la disco music, dissociandosi dal rock. I generi diventano discografici, si specializzano. Gli States, grande fucina dello spettacolo, alimenta i musical con i suoi corpi da ballo, e mette a segno con successo al cinema il revival della età aurea del rock (American Graffiti 1973, Grease 1978) e la diffusione della Disco (Saturday Night Fever, 1977)

Il nostro boomer, diventato ragazzino, ha due strade: quella ordinaria, integrata, del divertimento (disimpegno), della disco music. Quella diversa, alternativa, se vogliamo più impegnata, antagonistica: il rock che non è più ballabile, ma diventa musica da ascolto e/o sballo. Certe dicotomie erano sicuramente fasulle, per certi versi forse incomprensibili fuori dall’Europa e nel mondo anglosassone. Ma una cosa è certa: non si può ballare i Pink Floyd, i Genesis, i Deep Purple, i Led Zeppelin, e questo vale per quasi tutto il panorama rock di allora.

Alcuni autori rock di qualità si smarcano e mischiano le carte recuperando il ballo: come David Bowie, Roxy Music (Siren, 1975) , Lou Reed (Sally can’t dance, 1974) e gli stessi Rolling Stones (Black and blue, 1976). David Bowie in particolare intuisce alcune tendenze che diventeranno presto nuove e dominanti: recupero della Dance, associato alla Elettronica. Un processo che parte da Young Americans (1975) e continua, arricchendosi in modo non banale con Station to Station (1976) e poi Low e Heroes (1977) questi due ultimi in collaborazione con Eno, fuoriuscito dai Roxy che avrà un ruolo fondamentale come produttore negli anni successivi.

Bowie andò a presentare un pezzo di Young Americans, Golden years, ad una popolare trasmissione di musica nera, Soul Train.

il riff di un altro pezzo tratto da Young Americans, Fame, scritto con John Lennon e Carlos Alomar sarà così convincentemente funk da essere utilizzato nello stesso anno da James Brown per il suo singolo Hot

Abbiamo scollinato la metà degli anni ’70, il nostro boomer è adolescente, quando irrompe il punk – new wave, che cambia tutto il quadro, spazzando via definitivamente l’era psichedelica/progressive e le sue utopie.

(3 -continua)

Il ballo dei giovani boomers (seconda puntata: lezioni di twist)

Nella precedente puntata abbiamo riportato un brano in cui Malcolm X descrive il modo di ballare istintivo, diverso dal ballo europeo, dei neri americani già negli anni 30-40.  Musiche e balli che accenderanno il bianco rock’n roll.

Bianco rock’n roll. Ma Chuck Berry non era forse nero? Ma Chuck Berry è un nero che fa il bianco.

Ecco vorrei chiarire subito che la musica e il ballo dei neri americani è cosa a parte e diversa dal modo di ballare anni 80 che vorrei descrivere. E tuttavia, è stato elemento detonatore, necessario per generare quell’altro tipo di ballo, per cui sarà ancora necessario parlarne.

Siamo ora alla metà anni 60. Il nostro boomer, ancora infante, si trova a gattonare o a fare i primi passi ascoltando alla radio il Twist, vedendolo forse alla televisione.

Il Twist probabilmente penetrò  nella società più del rock’n roll di cui è stretto derivato. Il rock’n roll è ancora un po’ estremo, di nicchia, in qualche modo collegato col fenomeno un po’ delinquenziale dei “teddy boy”, anche molto statunitense. Il Twist invece è un prodotto che funziona per tutti, negli anni del boom; è una prima, consistente affermazione ludica di un nuovo mondo consumistico. E forse, per la prima volta in modo netto, è un ballo di un individuo, che ancora si relaziona strettamente ad altri, ma supera il contatto fisico. Ciascuno un po’ per sé, anche se di fronte all’altro, toccandosi, relazionandosi. Questa è modernità.

Caratteristiche un po’ standardizzate: non è difficile, ha obbligati ma non stretti. Non richiede le qualità istintive che ci ha raccontato Malcolm x, ma nemmeno richiede studio, è molto semplice; quasi una perfetta metafora del paradiso consumistico: facile, allegro, che coinvolge più persone ma che garantisce uno spazio particolare e riservato all’individuo. Paul Ginzborg, nella sua Storia d’Italia dal secondo dopoguerra, riporta la canzonatura di un governo Moro, di cui si diceva che fosse come il Twist: ci si muove tanto, ma si resta sempre nello stesso punto. Pier Paolo Pasolini registra a modo suo, in Uccellacci ed uccellini (1966), le caratteristiche “semi individuali” di questo nuovo modo di ballare, dal juke box di una borgata rurale nei pressi di Roma, con colonna sonora di Ennio Morricone.

La scuola autogestita di ballo che filma Pasolini non è esattamente “twist”. Ma d’altronde, c’era tutto un esplodere di balli, ciascuno secondo le sue mosse.

Ecco alcuni di questi passi esemplificati magistralmente da un James Brown già non più giovanissimo, e ingrassato, ma sempre straordinario, modello per le future star Michael Jackson e Prince

Il terzo passo illustrato nel video precedente è il “funky chicken”. Questo ci riporta ad un’altra meravigliosa testimonianza filmata sul ballo dei neri americani. Siamo nel 1972. Il 20 agosto la Stax records organizza un concerto di beneficenza in memoria del settennale della rivolta della comunità afroamericana di Watts. Una sorta di Woodstock nera, Wattstax. Rufus Thomas, in magnifico completo rosa con pantaloncini corti e stivali, canta Funky Chicken e la folla invade il campo. Donne, uomini, bambini che lasceranno dimostrazione che le parole di Malcolm X sulla istintiva capacità del ballo dei neri non erano affatto errate.

(2-continua)

 

 

Il ballo dei giovani boomers. (prima puntata)

E’ da questa estate, quando sono andato a ballare in serate in cui veniva messa musica new wave anni ’80, che ho voglia di scrivere qualcosa sul ballo nelle disco rock anni ’80. Forse l’incubazione (termine adatto) di questo tema è quasi matura in me. Mi è tornata in mente questa esibizione live alla BBC dei Joy Division, 1979, ora 40 anni fa. L’ossessività molto precisa del loro sound, in particolare in questo pezzo, è marcata dalla inquietante presenza e modo di ballare di Ian Curtis. Fa paura. Comincerei da li. da questo estremo che era il suo modo di ballare, senza finzione, senza mediazione, senza rete. Questo ascoltavano i cosiddetti “boomers” a 16 anni. (non tutti, certo).

Ian Curtis soffriva di epilessia. Morbus sacer, come lo chiamavano gli antichi, che interpretavano gli attacchi di questa malattia come interventi di divinità sul corpo dell’ammorbato.

La tesi che qui provo a proporre è che, durante gli anni 80 del secolo scorso, si completa il percorso sociale e musicale attraverso cui il ballo di musica popolare diviene una manifestazione solipsistica e talvolta narcisistica, laddove in precedenza era una forma di approccio e incontro/corteggiamento fra persone attaverso il contatto. In questo senso Ian Curtis, che muore nel 1980 ma la cui voce percorrerà il decennio successivo, e risuonerà nelle disco nelle serate “new wave”, è l’emblema di questo isolamento solipsistico, disagiato.

Tesi contestabilissima, forse sbagliata. Ma sarà comunque per me, e spero per gli eventuali lettori, piacevole percorrere questa idea anche attraverso gli esempi proposti.

Partiamo dall’inizio. L’inizio è l’inizio del rock, cioè il rock’n roll.

Tutto sommato tutto era già lì, nei movimenti pelvici di Elvis. Elvis individualizzava, divisticamente, il ballo dei neri americani.

C’è una bella scena di Malcolm X di Spike Lee che fa immaginare quel che potevano essere le sale che il non ancora ventenne Malcolm Little frequentava ad Harlem nei primi anni ’40. Nello specifico, la Roseland Ballroom, dove aveva lavorato come lustrascarpe.

Leggiamo dalla autobiografia di Malcolm X questa nota sul ballo: “Ero in mezzo alla folla delle coppie che si agitavano furiosamente al ritmo della musica quando d’improvviso seppi come si faceva. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse acceso una luce. I miei istinti africani per tanto tempo repressi esplosero e si scatenarono con tutta la loro violenza.   Forse perché ero stato tanto tempo a in mezzo ai bianchi a Mason, avevo sempre creduto e temuto che ballare richiedesse un certo ordine o un insieme di passi e figure specifiche, così come il ballo è concepito dai bianchi. Ma qui tra la mia gente molto meno inibita di quelli, mi accorsi che si trattava semplicemente di lasciare che i piedi, le mani e tutto il corpo si abbandonassero spontaneamente a quegli impulsi che la la musica stimolava”  E ancora: “I bianchi hanno ragione di credere che i negri siano dei ballerini nati. Lo sono anche i bambini, fatta eccezione per quei negri di oggi che sono cosi “integrati”, come lo ero stato io, che i loro istinti sono inibiti” (Alex Haley e Malcolm X, Autobiografia di Malcolm X)

 

1- continua