Lewis Mumford

Appunti per la città post pandemica I

La pandemia Covid 19 ha forse consegnato definitivamente al secolo scorso alcuni aspetti distintivi delle concezioni urbane e architettoniche moderne.

Si prenda in considerazione l’elemento principalmente critico: l’alta concentrazione e densità urbana.

La città è, per sua natura, sempre stato un fenomeno di concentrazione e polarizzazione territoriale. Le metropoli moderne hanno accentuato questo aspetto di polarizzazione, reso emblematico dalle costruzioni in altezza. “La città che sale” è emblema futurista, e nel corso del primo decennio 2000 indubbiamente il grattacielo ebbe un nuovo successo, principalmente dalle metropoli asiatiche in crescita, con record di altezza statunitensi polverizzati dai “supertall”, nuove forme per gruppi di torri che gareggiano nei cieli e nei computer di tutto il mondo collegato in rete. Edifici climatizzati ed ermetici.

Tutto questo è l’antitesi di un insediamento propizio al contrasto ai contagi virali, dati gli assembramenti sui luoghi chiusi, e la necessità di uso dei trasporti pubblici con picchi di affollamento corrispondenti agli orari di lavoro o di studio. Certamente i grattacieli consentono un miglior sistema di controllo di accesso, di monitoraggio, ma in ogni caso costituiscono una pericolosa concentrazione, per loro stessa natura.

Concentrazione urbana significa anche alta intensità di uso dello spazio domestico, maggiori prezzi in funzione delle minor distanze dal cuore dei poli metropolitani. Quindi spazi tendenti allo “existenz minimum”. Minime, ma per principio di economia e produzione seriale, cellule in abitazioni collettive di ampie dimensioni, con servizi comuni. Anch’essi oggetto di recente revival in forme di “co housing”, ed altro genere di residenza collettiva.

Tutto questo è invecchiato tremendamente nel giro di pochi mesi.

Personalmente non ho mai creduto alla possibilità che la pandemia possa avere una lunga durata, a differenza di molti colleghi che hanno immaginato cambiamenti radicali a lungo termine dei modi di abitare a causa della permanenza del virus, immaginando il ripristino dei borghi fuori città, con ampi spazi disponibili anche all’aperto ma con connessioni wireless.

Questi scenari immaginati a partire permanenza del virus sono persino per certi versi auspicabili, e anche all’interno della modernità, che – non va mai dimenticato – ha sempre avuto una doppia natura, una sorta di antitesi interna. Basti pensare alle concezioni disurbaniste di Wright, o a quella che oggi potrebbe parere una profezia da parte di Lewis Mumford, che le megalopoli si sarebbero trasformate in necropoli.

Indubbiamente questa pandemia, con la scossa che ci ha dato può, pur cessando, avere un effetto positivo nel ripensare per il futuro gli spazi urbani. La città, la densità, questa polarizzazione urbana ci saranno sempre finché l’uomo popolerà la terra, perché è nella sua natura, perché l’uomo è davvero un animale sociale e la socialità non può esprimersi unicamente attraverso mezzi di comunicazione, “media”.

Ma ripensare, ridisegnare la città che si è costituta nel secolo scorso, con certi criteri di cui oggi vediamo meglio i limiti e i difetti, è forse più facile dopo la pandemia. E necessario, indipendentemente dalla sua durata.

(continua)