Month: Maggio 2015

Elementari

Alcuni miei compagni di classi delle elementari hanno deciso di organizzare una cena. Tutto ciò sarebbe stato impossibile senza Facebook.

Mi è tornato dunque in mente una cosetta che scrissi 6 anni fa, in cui parlavo appunto del ritrovare i vecchissimi amici su FB, e con l’occasione mi lasciavo andare ai ricordi, tanto più teneri quanto più ammorbiditi dalla spessa coltre di tempo. Allora i blog facevano anche “social”, FB non era così diffuso, e credo che quel post, come allora si usava, ebbe decine di commenti di amici bloggers. Oggi lo ripropongo, non so bene a quale scopo, ma va bè:

Facciabucco + libbro kuore
giovedì 30 aprile 2009 19.57

Lo scorso sabato mi sono iscritto a Facebook.

Beh, che dire? Parecchie cose in più di quelle che sono state già dette, secondo me.

In linea di tendenza, è chiaro che FB porterà, se non lo ha già fatto, ad un ridimensionamento dei blog.

Cosa tutto sommato auspicabile. In sostanza, il blog come luogo di discussione ed argomentazione generalista, come autopromozione, tenderà a sparire; resterà il blog come luogo di scrittura e discussione specializzato.

Quindi, “ceci touerà celà” solo in certi casi.

Facilmente, FB si pone come strumento “sinergico” rispetto a piani già strutturati (una amicizia vera, attuale o del passato … oppure una promozione strutturata … tutti gli artisti e tutti i politici sono su FB).

La cosa che mi piace del Facciabucco è soprattutto riscoprire vecchie e vecchissime amicizie. (non so, non credo si possano fare “nuove amicizie”, ma solo “nuovi contatti” … si possono forse fare nei blog, per via della attenzione concentrata che impone sul singolo soggetto che scrive)

La cosa che non mi piace di Facebook è il casino, il rischio di diventare un “asino in mezzo ai suoni”. I “gadget”, i test idioti, la comunicazione troppo spiccia, l’abbondanza del superfluo. Ma basta prendere i dovuti provvedimenti, usare il dovuto distacco.

Comunque: quando ho visto su Facciabucco il mio primo compagno di banco, che ha “postato” la foto di classe delle elementari, ero contento. terza elementare

elementariTorino, Scuola Coppino, as 1971-72. Classe 3A.

Una delle ultime classi maschili del mondo occidentale, credo.

Ci sarebbe da dire un po’ su questa foto; varie notazioni sociologiche, o anche solo divertenti aneddoti. Si potrebbe scrivere un gustoso pezzo di molte pagine.

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Ecco ad esempio: come notate, la divisa non c’era più, ma – a surrogato di essa – il maestro prescriveva che si dovesse portare maglia, maglioncino o giacca blu. Ma c’è uno con la maglia bianca, per giunta nel giorno della foto.

Si tratta di Mario Bel., detto “Gallicchio”, forse per via della acconciatura con il ricciolo un po’ a banana.

Gallicchio era di famiglia povera, allora ce n’erano non poche anche alla Crocetta. Proveniente dalla Basilicata. Non credo fosse un atto “trasgressivo” da parte sua, forse di maglia blu ne aveva una sola ed era a lavare.

In effetti a volte era un po’ maldestro. Ricordo che un primo aprile (eravamo a scuola di pomeriggio, perchè allora facevamo i turni con altre classi al mattino, tanti erano i bambini in rapporto alle aule), si nascose abilmente in un armadio di una classe vuota. Dopo ore e ore di ricerca, passato l’orario di uscita (che ormai era buio, tutti erano stati mobilitati, il maestro era disperato “oh-mi-mì e ora che faccio mi becco una denuncia!”) spuntò fuori con un sorriso apertissimo e giocondo “Eccomi qui!!! Pesce d’aprile!”. Il maestro (meriterebbe un capitolo a parte, quale responsabile della mia cronica ostilità verso il potere) non rise affatto e lo umiliò selvaggiamente.

Di Gallicchio, mi ricordo in particolare un dettaglio che mi strinse il cuore: mi raccontò che lui e sua madre studiavano insieme, perchè lei era analfabeta e lui le raccontava quello che imparava a scuola, così imparava pure lei a leggere, scrivere e far di conto.

ecc.ecc.

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Non ci giurerei, ma mi pare di ricordare che il maestro stette un po’, prima dello scatto, ad ordinare la disposizione degli alunni. Seduti in prima fila, quelli più bassotti, con a fianco, accosciati, quelli di stazza maggiore; in seconda fila in piedi, quelli di corporatura media; in terza, su panca, quelli più alti.

Il maestro. Doveva avere avuto da giovane qualche frustrazione militare. Infatti, concepiva il suo ruolo come quello di comandante, e vedeva gli allievi come soldati semplici. Questo ordine si rifletteva sulla disposizione della classe: tre file di banchi. Ogni fila era una “squadra”; si andava ai cessi per squadra, diretti dal “caposquadra”; c’era poi un caposquadra che faceva anche il capoclasse. I caposquadra dovevano farsi cucire dalla mamma, sulla maglia blu, gradi rossi. Il capoclasse aveva il “doppio grado”.

L’elezione era democratica, a votazione diretta. Se non che, il maestro, ogni qualvolta veniva eletto un caposquadra a suo insindacabile giudizio non idoneo per un connaturato istinto alla indisciplina, lo degradava a soldato semplice. Naturalmente, la volta che venni eletto fui il giorno stesso “degradato”. Almeno mia madre non dovette cucirmi i gradi.

A ginnastica, quel povero deficiente ci faceva fare la marcia (“così, quando farete il militare, saprete già come fare”). Doveva essere veramente una scena triste. Per più di mezzora, 30 bambini che marciavano ai bordi della palestra, con quel frustrato a fianco che urlacchiava, con aria marziale e fischietto “unò-duì-unò-duì … passooo” e vai col baradan del passo, tanto più forte quanto più era lo sfogo per quel noiosissimo e stupido esercizio. E poi “fianco-dees-dest! Rì-poso-ò!” L’idiota infine, verso l’ultimo quarto d’ora, ci lasciava la palestra a disposizione per dimenarci come bestie, a correre in modo scoordinato e ad arrampicarci come scimmie urlatrici su pertiche e spalliere. Educazione fisica.

Questo signore ha avuto certamente un pregio, quello di immunizzarmi per sempre dal fascismo e dal militarismo. Di darmi con la sua stessa persona un significato certo del termine “italietta meschina”.

Ciò non mi è però sufficiente per essergli grato.

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Il maestro non era cattivo. No, niente affatto. Aveva anche una buona sintonia con noi, una certa intesa. Non era cattivo. Era codardo. La codardia non è propriamente la paura. La codardia è una paura meschina. La paura di perdere quel poco di privilegi che si hanno, quel poco di beni che si hanno, o anche solo di ridurli un poco, e per questa paura meschina, rinunciare alle cose più importanti della vita: rinunciare a pensare secondo spirito e verità; a coltivare la giustizia, l’onestà; ad amare la bellezza. Il codardo puzza, perché sa in cuor suo di mentire, di essere ingiusto e brutto. Non ha nemmeno la nobiltà della cattiveria coraggiosa e franca. Non si alzerà mai dalla mediocrità.
La codardia è un male sociale. Senza la codardia nessun dittatore potrebbe esistere.

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E a pensarci bene, lo status sociale era una matrice – forgiata dagli adulti (il maestro, i genitori) che si faceva sentire pesantemente. I bambini sono puri, ma in quegli anni imparano presto a percepirla. Nella Torino di quegli anni si sentiva ancora molto la provenienza regionale. I meridionali erano gli stranieri di allora. Siccome spesso i meridionali erano anche di estrazione sociale più bassa, la caratterizzazione complessiva era abbastanza forte. In questo, ero un meticcio. Ero meridionale, ma la mia estrazione sociale era alta. In un certo senso ero dunque non omogeneo a qualsiasi matrice di grana grossa. E il piano sociale era prevalente rispetto al regionale: di fatto, ero più omogeneo alla borghesia torinese, sebbene comunque diverso, piuttosto che al proletariato meridionale o alla piccola borghesia piemontese, che invece forse si intendevano meglio fra loro.

Non c’erano, questo va detto, forme simili ad apartheid. Si trattava piuttosto di riconoscimenti e filtri riguardo ad omogeneità di base … forme linguistiche, accenti, prossemica, volume della voce, vestiario, arredamento, odori provenienti dalle cucine, comportamenti minuti. La matrice di riconoscimento, attraverso cui gli adulti attuavano in qualche modo un filtro – a suo modo educativo – fra i figli e i loro compagni. Questa cosa a ripensarci era fortissima in certi componenti della buona borghesia torinese: Mario.Mo., Federico.Gra, Marco.Bor., ecc., gente nata molto Fiat e dintorni.

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Marco Bor., proprio lì accanto a Gallicchio (ovviamente, quello biondino sulla destra). Mi pare non avesse nomignoli. I nomignoli provengono da ambienti ruspanti, ad esempio, l’oratorio dei salesiani, dove ai tempi delle elementari, giocavano solo i più poveri. Una “erre” leggermente pizzicata, se non ricordo male.

La sua casa era assai vicina all’oratorio, ma in realtà distante anni luce. Me la ricordo. Casa fatta certamente da Rosazza, condominio de luxe, 6-7 piani con ampio atrio a colonne semplici rivestite di piastrelline quadrate color ambra (pilotis interni decorati) e rivestito con marmo, con finestrotto della portineria. Alloggio funzionale, luminoso, arredato con gusto, ingegnere quadro dirigente. Mamma con stile, caruccia, moderna, “laica”. Camera dei figli con elegante separè scorrevole (tradiva comunque un benessere limitato) colorato in accordo alla morbida moquette. Primi giochi elettronici, grande novità (il tennis, da applicare al televisore). Mossa segreta, da rivelare solo agli amici molto intimi (a me fu solo raccontato) : sbirciare la collezione paterna di “Playboy”, nascosta da qualche parte, forse dietro il mobiletto dei drink o intorno all’impianto stereo, con dischi che ora immagino di jazz mainstream o di Mina.

Federico Gra. (accanto a me nella foto … biondino piccolino con gli occhiali, coi gradi di caposquadra … io sono il terzo seduto da sinistra, coi ricciolini castani e i pantaloni lunghi) abitava proprio sotto l’attico e superattico di Umberto Agnelli, di fronte ai giardinetti del Mauriziano. Anche quella casa aveva un atrio molto simile a quella di Marco, un po’ più deluxe. Federico, che aveva accesso a casa U. Agnelli, ci regalava generosamente tanto bel materiale juventino proveniente da lì: foto giganti della squadra o dei giocatori (a volte con firma non stampata), in una sorta di fall-out d’abbondanza che proveniva dalla casa di sopra. Lui e la madre squisiti, cordialissimi, gentilissimi, perfetti. I padri, non si vedevano mai, ora che ci penso; probabilmente orari di lavoro allucinanti, con ritorno a casa a togliersi di dosso la tuta da manager senza nessuno intorno, tantomeno bambini molesti.
Si giocava a pallone e si andava in bici nei giardinetti di fronte. Giovannino Agnelli, quello che morì giovane, non si vedeva mai, anche se abitava lì a due passi. Pare che potesse scendere ai giardinetti solo attorniato dai gorilla per paura dei rapimenti, che allora erano abbastanza diffusi. A quel tempo, non potevo saperlo: questi moderni soldati, manager disciplinatissimi nella ricerca della promozione sociale ai massimi gradi, non hanno mai riflettuto che ascendere in quella scala comportava un figlio chiuso in un dorato attico, meno libero di un cane di gironzolare ai giardinetti? A che cosa miravano, veramente? Che cosa ottundeva la loro coscienza?

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C’è solo uno che mi sento di nominare per esteso, essendo egli un personaggio pubblico, oggi. Il secondo da destra, fila intermedia sotto al maestro. Massimiliano Casacci, oggi Max dei Subsonica.
Mi serve sempre con i figli. “Non sono così vecchio! Max dei Subsonica E’ VECCHIO COME ME!!! Era in classe con me. Giuro …” Risposta: “Sarà. Però non sembra …”. Mannaggia, ho dovuto farmi fare la firma con dedica per mia figlia, se no non ci credeva.
Era un tipo riservato, molto curato e preciso, parlava poco. Da lui sentii per la prima volta la parola “ecologia”, per giunta con definizione a ripensarci notevolmente accurata (era già avanti, a la page). Il maestro, fortunatamente, era già cambiato. La nuova maestra lo lodò. Una parola simile invece, dal vecchio maestro sarebbe stata messa alla berlina con una allocuzione tipo “cos’è, si mangia?” oppure “pensa a far bene le moltiplicazioni”. Spiritoso. Del resto, questo era il destino di qualsiasi termine che potesse portarlo fuori dal suo piccolo mondo antico. Che so, parole tipo “Lucio Battisti” o “Deinotherium” (elefante preistorico che c’era nella figura del sussidiario, che quando lui disse “ecco un Mammuth” io me ne uscì purtroppo con “no, è un Deinotherium, ha le zanne sotto” e il maestro : “no, è un Mammuth! c’era solo il Mammuth, te lo stai inventando … scrivi 10 volte non devo fare il furbo”). Il mio quaderno era pieno di scritte di punizione. Conformemente alla sua limitatissima fantasia, erano in genere di 3 o 4 tipi. In particolare, “non devo borbottare” e “non devo fare il furbo” l’avrò scritto centinaia di volte.
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Tante altre storie avrei da raccontare – ed anche il lieto fine, con il nuovo bravo maestro, vero maestro, che in quinta ebbe ad arrivare.

Ma domani è il primo maggio. Ed oggi sono stanco, voglio riposare.

… pure in rima, olè

Note sulla cultura del critico

Ho avuto parecchio da fare in questo periodo

Comunque ho fatto un nuovo scritto breve per PresS/Tletter. Qui

Messa l’immagine di ex biblioteca di Beinasco su disegno di Bruno Zevi. A dimostrazione che il buon critico d’architettura è spesso un architetto un po’ fallito.

zevi beinasco